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Fico invernale nero

Ficus carica L.

famiglia: Moracee

Ogni territorio vanta delle particolarità nel campo delle coltivazioni arboree ed in quelle ortive che naturalmente derivano da mondi lontani, ma per quelle dei fichi le perdite risultano notevoli ed irreparabili, in quanto molte varietà venivano coltivati nei vigneti, che abbandonati, furono sottoposti ad incendi devastanti.

Per quanto riguarda la varietà qui presentata, appartiene a quelle definite d’inverno o mbernitiche, ma ciò non è vero in quanto la loro produzione si articola nel mese di settembre fino alla prima decina di ottobre, collocandosi quindi nella parte finale dell’estate e all’inizio dell’autunno.

Essa appartiene ad una serie di varietà consimili, tutte dalla buccia che vira al marroncino che hanno in prevalenza una particolarità negativa consistente nel fatto che quando piove si aprono, per cui poi possono inacidire, la presente invece resiste bene alle piogge per cui mantiene intatta la buccia che si fende appena, mostrando la “cammisella” ossia la parte candida sotto la buccia, che delimita la polpa rosea; il suo sapore è buono, dolce al punto giusto.

Tale varietà non è bifera ossia non produce due volte all’anno, con la prima produzione costituita dai fioroni e la seconda dai forniti, ossia i fichi veri e propri, ma solo da forniti.

Generalmente i fichi cosiddetti invernali, che tali non erano, venivano innestati sui caprifichi, ossia i fichi selvatici, perché avevano una resistenza maggiore ed anche perché qualora fossero stati riprodotti per talea avevano una durata di gran lunga minore e producevano frutti più scadenti.

Le altre varietà, tra cui il dottato, oppure lo Schiavo o Mulingiana, si preferiva riprodurle per talea e non attraverso i polloni che venivano emessi dalla pianta alla base del tronco in quanto le piante riprodotte per talea stentavano a crescere, per cui un proverbio popolare avvertiva: “crisci prima nu figghjòlu ca na ficara cu nu pedaloru (pollone)”. E naturalmente i contadini più accorti accoglievano i consigli, procedendo con due modalità differenti. Nell’area di Palizzi recidevano un ramo di fico alla fine di febbraio, spaccavano per la profondità di circa 5 cm il ramo dalla parte recisa, e v’infilavano una pietruzza piatta e poi mettevano a dimora il ramo stesso ad una profondità di circa mezzo metro. Dalla parte spaccata venivano fuori le radici e la piccola pietra ne impediva la chiusura.

D’estate bisognava bagnare il ramo ogni quindici giorni e durante la bella stagione esso emetteva radici abbondanti. Nello spazio di pochi anni il ramo si trasformava in una pianta produttiva. Nel circondario di Bianco invece veniva scavata una fossa profonda quasi un metro, sempre alla fine di febbraio e vi veniva calato un ramo non piccolo, articolato in tanti rametti e di essi veniva lasciato fuoruscire solo uno. La terra sopra veniva pressata e poi irrigata non abbondantemente; l’intervento d’irrigazione veniva ripetuta d’estate ogni quindici giorni, favorendo il radicamento del ramo che nello spazio di due o tre anni cresceva notevolmente e nello spazio di cinque o sei, diventava una pianta dalla grandezza notevole.