Prunus domestica L.
famiglia: Rosacee
Le prugne davano la possibilità nei nostri territori, fino agli inizi degli anni cinquanta del ‘900, di preparare le scorte invernali sotto forma di frutta secca utilissima a superare l’inverno, considerata una soglia difficile da varcare specie da parte della povera gente con i tanti bambini sempre affamati ed infreddoliti perché mal coperti. Il freddo veniva sconfitto con abiti rattoppati appartenuti ai fratelli più grandi, mentre i piedi rimanevano spesso nudi o coperti semmai dalle “scarpe grosse”di “cromo” ossia di pelle ruvida di vitello conciato nelle concerie del territorio, spesso di Canolo, con le suole chiodate, dotate da “vitarelle” o “ttacce” e “puntette”, punte difese da parti ferrate, che dovevano “durare” dalle prime acque in ottobre fino alla fine di aprile, quando anche i bambini dei non poveri buttavano gli scarponi ormai consunti, che lo “scarparo” aveva con tanta perizia confezionato con la raccomandazione del padre di portarli a termine di un numero più grande in quanto i piedi dei ragazzini crescono, si sa, da un giorno all’altro. Naturalmente un altro aiuto contro il freddo veniva dal sole che i bambini poveri invocavano quando una nuvola non densa lo ricopriva: “suli, suli nesci, nesci, pa li poveri piccirilli che non hannu da mangiari, suli nesci pa cardiaci”.
I bambini poveri già dalla più tenera età, a partire da sei o sette anni, nei paesi dell’entroterra, venivano utilizzati come piccoli pastori dalla famiglie povere che li mandavano a pascolare qualche capra o pecora, evadendo l’obbligatorietà scolastica. Portavano per sfamarsi pane asciutto, che talvolta si accompagnava con pochi fichi secchi, pere secche o talvolta con prugne secche. I bambini poverissimi venivano “ccordati” ossia divenivano servi pastori presso agricoltori benestanti in cambio di qualche quintale di grano o di legumi per un anno di fatica da dare alla famiglia di origine. Inoltre ogni anno venivano dotati di un paio di scarponi, due paia di “carzuni” (mutande lunghe di tela), una giacca di velluto o di fustagno del tipo “pelle di diavolo” (molto resistente), corredata da due pantaloni dello stesso tipo di stoffa, una camicia di tela, un berretto (barritta alla carrettèra) un ombrello resistente, mentre la maglia “in carni” ossia la maglia interna era confezionata dalle mamme, da cui veniva confezionata con i ferri da maglia con lana filata delle pecore nere, così la sporcizia si notava meno.
Di solito i bambini erano capaci di integrare la loro alimentazione molto scarsa e al limite della sopravvivenza, ancora fino agli inizi degli anni 50 del ‘900, cibandosi di erbe edule in campagna, imparando dai più grandicelli, che a loro volta avevano mediato le loro conoscenze dagli adulti.
Naturalmente il supporto alimentare più prelibato per essi era costituito dai “cannoli” ossia gli steli consistenti di sulla (erba da foraggio), che decorticati e mangiati a sazietà saziavano e deliziavano per la loro dolcezza, quando portavano qualche capra o pecora al pascolo; essi poi non omettevano di costituire dei mazzetti da portare a casa per le sorelline o per un fratellino più piccolo.
Osservavano gli animali e si accorgevano che alcune piante, come la ferula, l’oleandro, l’euforbia, il laburno fetido, ecc., le risparmiavano ed allora chiedevano agli adulti il perché ed apprendevano che erano piante velenose.
Grandi e piccini amavano moltissimo la frutta che addolciva un po’ l’esistenza stentata e le piante da frutto più generose, a ben guardare erano i peri e i susini; infatti alcune varietà di ambedue cominciavano a maturare i loro frutti a partire da maggio, scaglionando nei vari mesi i loro doni fino ad ottobre, al tempo della vendemmia.
In questa gara di generosità, tra pero e susino, aveva la meglio per un soffio, il pero il quale offriva l’ultimo suo dono a dicembre con la varietà Castiglione.
Le susine erano molto amate, ed ogni territorio proponeva qualcosa d’inedito rispetto ad altri, ma c’erano alcune varietà diffuse in alcuni territori contigui, mentre poche altre erano diffuse a livello regionale.
Addirittura esistevano dei tipi di susini, appannaggio di qualche famiglia, all’interno di una stessa comunità che non veniva ceduta ad altre, funzionando da pianta totemica, ma la diffusione poteva avvenire tramite i matrimoni.
Un caso di funzione totemica risulta essere stata assolta dalla bellissima varietà Rusìa (Rosata in greco di Calabria) del susino qui presentato, presente in due esemplari nell’orto del prof. Domenico Camabreco a Ferruzzano Marina. Egli aveva apprezzato tale frutto da bambino, nella vigna che suo padre, nel 1933 aveva impiantato in contrada Carruso dello stesso comune.
Egli era stato a Calusco d’Adda in provincia di Bergamo per più di quarant’anni e ritornando al suo paese d’origine volle visitare il luogo di delizia, quale era stata la vigna di suo padre ed intrappolata in un enorme roveto scorse boccheggiante il Susino rusìa, che solo la sua famiglia possedeva, e lo salvò in extremis. Ora gli unici due esemplari esistono nel suo orto a Ferruzzano marina e producono dei frutti magnifici anche da vedere, che maturano tra la fine di luglio e la metà di Agosto. Offrono delle susine dal colore rosato e dal gusto soave, che molto spesso si saldano tra di loro a due a due, mentre il loro nocciolo viene estratto con facilità e risulta spiccagnolo (resta asciutto). È di non facile attecchimento per cui il rischio d’estinzione è altissimo.