Sin dalla sua comparsa sulla terra, l’uomo fu sempre in stretta relazione con il mondo vegetale, per merito del quale egli poteva vivere e perpetuare la sua specie. È ovvio che per alimentarsi usò subito i prodotti che la natura gli poteva offrire, mentre contemporaneamente cominciò a cibarsi delle carni degli animali che vivevano a lui vicini. Poté nel tempo selezionare mentalmente le piante utili e prestare attenzione a non servirsi di quelle nocive, che imparò a conoscere. Notò, in questa sua ricerca empirica, che alcune piante potevano risolvere o almeno lenire problemi di salute che l’assillavano. Naturalmente in Calabria successe la stessa cosa ed in ogni villaggio sin dalla più tenera età ognuno imparava a relazionarsi con il mondo vegetale, che dava aiuto anche ad alleviare i morsi della fame. Infatti i bambini conoscevano le erbe commestibili e quando sconfinavano nelle campagne, da soli o in compagnia di coetanei, davano la caccia ai fusti di piante eduli, spesso dotati di una verga di oleastro, con cui le privavano delle foglie eventualmente spinose. Questo capitava per il Cardo carimboso, per lo Scolimo, per il Cardo triste, per il Cardo asinino, ma non era necessaria tale pratica per il Finocchio selvatico, per la Sulla, per l’Aneto, per il Sedano selvatico, per la Barba di becco e svariate altre. Addirittura erano capaci di provvedere da soli nello scegliere le piante vulnerarie ed antisettiche, quando, succedeva spesso, si fossero procurati delle piccole ferite ed escoriazioni; per tale uso la pianta fondamentale era l’Inula viscosa. Sapevano già da soli curare i grossi foruncoli applicando sopra foglie di Giusquiamo e di Acanto. Naturalmente non sfuggiva loro il comportamento degli animali, tanto vicini a loro: notavano che i gatti, afflitti dal raffreddore si cibavano di foglie di Nepitella, che gli stessi, come pure i cani, quando avevano problemi di stomaco si cibavano della pianta di gramigna. Annotavano che gli animali al pascolo risparmiavano delle piante e così prendevano coscienza della pericolosità di quelle, in quanto velenose.
Nella nostra terra, ritenuta oggettivamente la più arretrata e per questo più conservativa delle altre regioni d’Italia, fino ai primissimi anni del dopoguerra (II guerra mondiale), i piccoli problemi di salute venivano affrontati e risolti con rimedi naturali. In ogni villaggio, specialmente quelli più piccoli, esistevano degli esperti che sapevano usare con saggezza le piante. Addirittura prima della seconda guerra mondiale, in alcune aree della Calabria veniva organizzata in settembre, da parte di donne, la raccolta della parte aerea della Nepitella, che veniva spedita a Roma all’industriale farmaceutico Alecce, originario di Montebello Jonico. Il valente naturalista d’Africa, morto poco più di un decennio fa, amava raccontare nei convegni di sensibilizzazione per il mondo vegetale, a favore dei docenti, che egli da giovane si era finanziato lo studio universitario spedendo in Svezia, vagoni pieni di bulbi di Scilla di mare, ricchi di costituenti cardiotonici.
Le piante ancora aiutavano a far diventare meno grigia la realtà quotidiana, arricchendola di colori. In questo erano specializzate le donne, in grado di sapere da quale pianta potessero ottenere dei determinati colori. Conoscevano anche le tecniche tintorie, con i preliminari necessari. Sottoponevano a gallizzazione, ossia alla permanenza di stoffe da tingere assieme a galle di querce, in acqua ad altissima temperatura, prima che fossero immesse, previa strizzatura, in bagno di colore; tale procedura favoriva l’assorbimento dei colori stessi da parte dei tessuti. Prima della seconda guerra mondiale però, per favorire il successo nella tintura degli stessi, con i colori vegetali, ricorrevano ad allume di rocca e acido tartarico, con l’aggiunta di piccole percentuali di sale da cucina. Sapevano tingere di giallo le stoffe messe in acqua, portate ad alte temperature, assieme a corteccia di Euforbia arborescente, della Dafne gnidio o delle bucce della Melagrana ad esempio; il marrone veniva estratto dal mallo delle Noci oppure dalle bucce di Castagne; il rosso dalle radici della Rubia tintoria.
In alcune aree, sapevano ricavare, con processi più sofisticati l’azzurro dall’Isathis tintoria, presente sul territorio ed il giallo dalla Reseda luteola ormai rara in Calabria. Più facile era ottenere il viola dalle Drupe di sambuco, o il rosa fucsia dai frutti di Ficodindia rosso-amaranto, messi a macerare.
I più sofisticati tintori operavano in alcuni centri della Calabria, Catanzaro, Rossano, Gioiosa Jonica, tramandandosi i segreti di padre in figlio e perpetuando forse le conoscenze del periodo bizantino, quando la Calabria esportava prodotti tintorii.
La presente raccolta presenta le piante più usate dai calabresi, fino agli inizi degli anni ’50 del novecento, per curarsi, per tingere le stoffe spesso tessute in casa o per qualche altro uso molto particolare; è il caso del Sorbo, dai tronchi del quale, tagliati in tempo opportuno e ben stagionati, venivano ricavate le statue più riuscite, dal punto di vista della conservazione, dei santi. Naturalmente la ricerca è stata condotta senza eccessive pretese per il solo scopo di non fare sprofondare nell’oblio l’uso popolare di numerose essenze vegetali.
testo Orlando Sculli