Vicia Ervilia L.
famiglia Fabacee
Tale varietà di veccia era ritenuta nell’area grecanica una lenticchia tanto che era denominata Mavrifacì che significa lenticchia nera appunto, anche se nera non è ma piuttosto marroncina, screziata da segni più scuri; essa ha una forma meno piatta rispetto alla lenticchia.
Già nel periodo preistorico era avvenuta la sua domesticazione e ciò è stato evidenziato dalle indagini archeologiche in Turchia e nel Medio Oriente dove era stata utilizzata dall’uomo come alimento, in quanto sono state rinvenute tracce in diversi siti archeologici.
Infatti, l’area di diffusione nell’antichità comprendeva l’Iran, l’Iraq, la Siria, la penisola anatolica (attuale Turchia), l’Africa settentrionale, specialmente il Marocco, dove ancora cresce spontaneamente, mentre è sporadica la sua presenza in alcune regioni d’Italia.
Attualmente, viene piuttosto considerata ottima per allevare gli animali per i numerosi elementi nutrizionali che possiede; cresce con facilità nei terreni sciolti e poco profondi.
Essa invece nella Bovesia era coltivata per l’alimentazione umana ed era considerata ottima, preferita alla lenticchia vera e propria e fino agli anni ‘70 del novecento nelle contrade più isolate di Bova non mancava di essere coltivata da ogni famiglia che vi viveva: da Bricha a Cavalli e poi lungo i declivi orientati verso il mare raggiungeva Licofosso e poi addirittura Palizzi Superiore.
Nel 1981, quando lo scrivente frequentò un corso di greco di Calabria a Bova Marina, tenuto dal poeta contadino Bruno Casile, di Cavalli di Bova, amico di tanti uomini di cultura, ellenici, che restavano estasiati quand’egli ospite in Grecia parlava la sua dolcissima lingua tanto vicina alla Katharevousa, la lingua depurata di tanti elementi popolari (opposta alla demotichì, la popolare, ora usata in Grecia) e più vicina a quella degli aristocratici che erano scappati dalla madrepatria di fronte all’avanzata islamica, seppe che la Mavrifacì o la lenticchia nera di Bova, che in effetti era una veccia, era sul punto di estinguersi, al pari del Triminì il grano strategico delle annate piovose.
Bisognava fare in fretta per evitare che ciò avvenisse, sensibilizzando quanto più gente possibile, specie i contadini che ormai cominciavano a disprezzarla considerandola il simbolo della fame e della povertà, il simbolo del passato quando essa per centinaia d’anni aveva sfamato migliaia di poveri, che addirittura mescolavano la sua farina con quella del grano per produrre un pane nero, pesante che saziava per molto tempo perché era difficile da digerire.
Ora essi invece non la coltivavano più e finalmente potevano mangiare la vera lenticchia, che si poteva comprare e mangiare senza averla prima piantata ai primi di novembre, come avveniva per la Mavrifacì che poi aveva bisogno di essere sarchiata al principio della primavera, poco prima che emettesse i suoi fiorellini candidi come la neve, poi aveva la necessità di essere protetta nelle sue esili piantine dagli attacchi degli uccelli ghiotti dei suoi fiorellini e dei rametti più teneri. Alla fine di maggio veniva strappata dalla terra prima che seccasse completamente, quando allora i suoi piccoli baccelli si aprivano facendo cadere i preziosi semi.
Veniva poi raccolta in piccoli mucchi gravati da pietre per evitare che il vento portasse via la fatica di tanto tempo e la speranza di tante cene parche assieme ai figli e alla madre di essi, di fronte al fuoco rassicurante durante le piovose serate d’inverno, quando il vento di ponente portava verso la montagna le foglie delle antiche querce piantate dai profughi di Kasos. A giugno tutte le piante venivano accatastate su un pianoro e colpite fino alla triturazione, con pesanti bastoni di “Agrillei” (ulivi selvatici). Il vento aiutava a separare la paglia dai semi, lanciati in aria dal tridente di orniello. Ora sul mucchio dei semi veniva segnata una croce e i semi stessi della Mavrifacì venivano misurati e finalmente portati a casa.
Nel 2012, il medico Bruno Traclò, che vent’anni prima aveva lasciato Bologna, con uno studio dentistico ben avviato, a favore della sua Bova, che aveva bisogno di essere amata come una tenera sposa, iniziò ad operare per proteggere i beni tangibili e quelli intangibili della sua terra, cominciando prima a riesumare il rito delle Persefoni, poi a lottare contro l’estinzione del germoplasma del territorio, ma scoraggiato, affidò allo scrivente un chilo di Mavrifacì perché trovasse qualcuno che la salvasse dall’estinzione.
Metà di essa fu affidata all’agronomo Thomas Varano di Borgia che cominciò a riprodurla, l’altra metà al dott. Florindo Rubbettino della nota casa editrice di Soveria Mannelli, che da tre anni la sta coltivando con successo nella sua serra a Soveria stessa.
Ambedue stanno provvedendo al salvataggio della lenticchia nera di Bova, che per centinaia di anni ha contribuito a sfamare migliaia di cittadini, i cui discendenti ora, da ingrati, l’hanno cacciata dalla Chora tu Vua.