Vitis Vinifera L.
famiglia: Vitacee
L’appuntamento era stato dato da un ferroviere al prof. Paolo Martino glottologo della Lumsa di Roma e allo scrivente in un bar sui piani di Bagaladi, da dove si proseguì in seguito su un fuoristrada, attraverso una pista in discesa verso Cola Checco, frazione di Cardeto. In quel posto il prof. avrebbe registrato le voci dei più vecchi, invitandoli a conversare sul loro passato trascorso in quel luogo isolato per scoprire gli elementi più conservativi della loro lingua.
Il ferroviere, essendo originario del posto, lasciò i due, andando da solo a dare un’occhiata ad un piccolo podere che possedeva poco distante e promise che sarebbe ritornato entro poche ore.
Era la fine di Agosto del 2003 ed in quelle località, a quota elevata per le vigne, l’uva era appena invaiata, osservata dallo scrivente, che parimenti cercava d’individuare antiche strutture di mulini ad acqua ed eventuali cani da pastore calabresi presenti nell’area fino a qualche decennio precedente prima che i pastori stessi, conservativi su tanto, non avessero introdotto sul territorio i pastori maremmani e di recente addirittura i pastori del Caucaso; ad un certo punto sentì un frastuono di campanacci ed andò incontro ad un vecchio pastore a cui chiese notizie dei cani da pastore calabresi ed egli replicò malinconicamente che le cinque varietà che arricchivano l’Aspromonte si erano ormai estinte. Guidava le sue capre invece un minuscolo Yorkshire affidato dalla nipote che viveva a Milano, ma che non aveva modo di tenerlo più in città e ad esso era tanto affezionata che nella Pasqua passata era venuta espressamente a visitare ambedue: cagnolino e nonno.
Andando alla ricerca di abitanti da contattare, Paolo Martino vide a ridosso della destra idrografica di una fiumare, nell’orto davanti la casa, un signore sulla novantina, Doldo Diego, che quasi a carponi curava le sue piante, raccontando che egli viveva da solo, nonostante che i suoi figli volessero portarlo con loro a Reggio Calabria, dove ora abitavano.
Non se la sentiva però di abbandonare la sua casettina dove aveva trascorso tutta la sua esistenza con la moglie defunta e dove ogni oggetto gliela ricordava. Infatti lì continuava a parlarle toccando gli oggetti che ella aveva toccato, carezzando il ciliegio da cui ella aveva colto i frutti, sedendo sulla stessa pietra da cui ella osservava le acque del fiume, quando si riposava dalla fatica. Sarebbe stato un delitto non curare i ricordi più e lasciarli morire assieme alle cose da lei tanto curate. No, egli sarebbe rimasto lì, fino all’ultimo respiro, attendendo con trepidazione la morte che l’avrebbe ricongiunto a lei.
Il professore gli chiese quali delle tante case fossero abitate ed egli indicò oltre il fiume una sola, persa tra la vegetazione ed allora essa divenne l’obiettivo di Paolo Martino.
Fu attraversato il letto del piccolo corso d’acqua, quasi inaridito, passando davanti ad un agglomerato di case vuote, con gli orti infestati dai rovi, con una sorgente inutilmente zampillante.
Ad un certo punto comparve, lungo un ruscello, un filare di pioppi tremuli, dalla corteccia argentea, su cui erano inerpicati delle viti e dai loro rami più bassi pendevano numerosissimi grappoli d’uva dagli acini non fitti che stavano virando verso il blu, ed allora furono osservati attentamente assieme alle foglie, che erano pentalobate, dal seno peziolare a lira aperta e con le pagine inferiori glabre.
Paolo Martino con un piccolo registratore in mano s’indirizzò verso la casettina indicata da Doldo e si avvicinò verso una donna anziana, vestita di nero, dai capelli candidi e dagli occhi cerulei velati di tristezza, seduta davanti una casettina tenendo in grembo un gatto grigio.
All’arrivo di due estranei la donna si alzò dalla sedia, lasciando scivolare a terra il gatto ed attese in piedi le persone in arrivo.
Lo scrivente chiese notizie sulle viti e seppe che si chiamavano Medulla di Gatto e questo perché i loro acini aperti erano incolori, ma nonostante ciò davano un vino color granato che il suo defunto marito usava mescolare con i grappoli di una pergola di Minna di Vacca che sorgeva dietro la casettina che dava un’uva buona e leggermente aromatica. Lo scrivente le chiese se al tempo della potatura potesse ritornare per avere i tralci delle due varietà ed ella promise che gli avrebbe dato quanto desiderava.
Paolo Martino cominciò a farle delle domande ed ella raccontò che viveva da sola in quanto il marito le era morto da molti anni, ma che lei non era in completa solitudine perché a qualche chilometro di distanza, viveva sua figlia con la famiglia, ma lei non se la sentiva di abbandonare la casa dove aveva vissuto in serenità, buona parte della sua vita assieme ai suoi cari.
Attorno alle quattordici il ferroviere ritornò e strada facendo cominciò a dare notizie sulle persone incontrate e apprendemmo che l’uomo si chiamava Doldo Diego, mentre la donna, Margherita Fortugno, era stata particolarmente sfortunata, in quanto aveva avuto due bei ragazzi che le erano morti a poco più di vent’anni d’età. Ella per onorare il loro ricordo, non intendeva assolutamente allontanarsi dal posto dove era vissuta felicemente anni prima.
Già dopo cinque anni, in una successiva visita, lo scrivente aveva constatato con tristezza che i roveti stavano insidiando le due casettine e i pioppi tremuli erano stati tagliati, mentre le viti di Medulla di Gatto di Margherita Fortugno non esistevano più, ma fortunatamente esse erano state salvate nel campo di salvataggio di Ferruzzano, dove nell’estate scorsa il ricercatore del Centro Sperimentale di Turi (Bari) dott. Angelo Caputo prelevò le cime apicali di 253 accessioni della raccolta dello scrivente stesso ed anche quella della Medulla di Gatto di Cardeto; dall’estrazione del DNA è emerso che essa corrisponde al San.Giovese, un’altra prova che il vitigno più diffuso d’Italia è originario dall’area calabro-lucana.