Vitis Vinifera L.
famiglia: Vitacee
La vite qui presentata, rappresenta un mistero sia per quanto riguarda l’uso che se ne faceva, sia in riferimento alla sua provenienza; infatti nessuno sa dire perché porta tale nome così strano e tanto meno sa indicare la sua origine.
L’area di diffusione era molto limitata e si riferiva solamente a quella dello stretto nella parte reggina e non era riuscita a superare questo limitato ambito, tranne che per un isolato tratto dell’entroterra di Melito Porto Salvo: Roccaforte del Greco.
Nella ricerca dello scrivente al di fuori del suo territorio, che è rappresentato dal circondario di Bianco, nessuno aveva parlato di questa varietà, neppure quando si era recato sui piani di Egua, contrada ricadente nel comune di Motta S.Giovanni, sopra Capo d’Armi, l’antica Leucopetra ellenica, dove sono in via d’estinzione le viti che avevano contraddistinto tale territorio, probabilmente dal tempo dei coloni calcidesi di Reggio fino a pochi decenni orsono.
I segni degli antichi vigneti , impiantati in un passato molto prospero sono evidenziati dalle presenza, appena leggibile di molte decine di chilometri di fasce, in alcuni casi sorretti da brandelli di muri a secco, ancora non distrutti dal passaggio devastante di branchi di capre al pascolo brado, alla ricerca frenetica di germogli di cespugli stentati.
Ora i vitigni che erano stati allevati ad alberello e bassi, per via del vento violento che vi soffia, specie in primavera al tempo della gemmazione e della fioritura, stanno letteralmente scomparendo e si stanno diffondendo nei terreni incolti l’ampelodesma, il cisto marino e quello montano, specie che si sviluppano in seguito ad incendi devastanti.
Persino la spendida vigna, fino al 2002, di Santo Calabrò e del fratello Salvatore è in forte decadenza; essa rappresentava l’area di conservazione , un vero catalogo vivente, delle viti del circondario di Reggio.
Nel 2002 , di giorno o nel pomeriggio inoltrato, quando lo scrivente ci andava, Salvatore , il custode per eccellenza dei saperi antichi del suo territorio, a colpo sicuro evidenziava le particolarità di ogni varietà, di cui conosceva la collocazione precisa ; affermava con sicurezza estrema che anche di notte, avrebbe potuto staccare dei tralci da una varietà desiderata o richiesta da un amico fidato.
E lo scrivente era considerato un amico di cui fidarsi ciecamente, sin dall’inizio della conoscenza, quando era stato introdotto alla loro attenzione e cortesia, dal defunto Ispettore ( scolastico ) Domenico Raso di Cittanova, ma all’epoca residente a Reggio, interprete originale ed appassionato dei territori dell’Aspromonte.
Salvatore” presentava” le viti, con i relativi grappoli, con affetto, come se fossero dei figli da salvaguardare e tutelare da ogni insidia ( non era sposato ).
Evidenziava le caratteristiche del nerello di Egua, delle malvasie , delle inzolie, dei moscatelli, del “ cuore di cane “, del bianco tondo, del castiglione, ma stranamente mai aveva accennato al giacchinè; solo in seguito, Santo, su precisa domanda, aveva risposto che la vigna era dotata anche del Giacchinè ed addirittura del Giacchè , che era qualcosa di diverso.
In seguito lo scrivente era entrato in relazione con Franco Tramontana, amministratore della casa vinicola Criserà di Catona, che lo fece accompagnare dal fratello nella vigna di famiglia nella frazione Salice , stretta ormai tra palazzi sorti disordinatamente nel tempo.
La guida nella vigna era rappresentata da un a persona che superava gli ottanta anni d’età e conosceva tutte le varietà più tipiche del territorio e a un certo punto si fermò davanti ad una vite che presentò come giacchinè, di cui ovviamente non conosceva la provenienza, ma semmai le caratteristiche fisiche della vite e delle sue uve.
Fece notare i tralci che erano inusuali, dal colore rossiccio , con dei riflessi talvolta violacei, mentre le foglie erano molto grandi , oblunghe, capaci di superare in lunghezza i 3 5 cm ,che non ricordavano la classica foglia pentagonale, tipica della vite.
Aggiungeva che le sue uve erano utilizzate per dare colore al vino ed infatti schiacciando qualche acino veniva fuori un colore rosso carminio dalla polpa, che tingeva in maniera persistente persino le mani ; intanto i grappoli dalla forma armonica e piramidale, di media grandezza, erano costituiti da acini, quasi perfettamente sferici, piccoli, radi , bleu e ricchi di pruina.
Raccontava inoltre che l’uva del giacchinè veniva usata nella preparazione del Pellaro, dove la base più importante era costituita dalle uve del nerello campito.
C
ontinuava ancora, dicendo che nel passato , durante la piantumazione di un vigneto, le viti del giacchinè venivano messe a dimora attorno a tutte le altre viti, in quanto eventuali ladri, arrivando assaggiavano le uve ed erano scoraggiati nel proseguire, pensando che tutta la vigna fosse costituita dalle stesse viti, che producevano grappoli dalle uve poco gradevoli.
Intanto dall’analisi molecolare, effettuata nel Centro Sperimentale di Turi è emerso che tale varietà ha un profilo forse unico al mondo, mentre giorni addietro un vinificatore del Bordeaux, trovandosi in transito nella Locride, venendo da vigneti particolari della Sicilia, ha avuto modo di assaggiare un bicchiere di vino , frutto di una micro vinificazione delle uve del Giacchinè , effettuata in purezza ed ha giudicato eccellente il vino che ne è derivato.
In seguito continuando la ricerca su vitigni particolari , lo scrivente era venuto in contacco con Franco Tramontana, dell’azienda vinicola Criserà di Catona, che lo fece accompagnare da fratello in una vigna di famiglia Salice di Catona, stretta ormai da palazzi che sorgevano disordinatamente