Verso la metà dell’VIII sec. a.C., i flussi commerciali verso l’Occidente divennero più frequenti e ci fu la constatazione che alcuni territori vicini al mondo ellenico erano scarsamente abitati e ricchi di potenzialità. Nacque allora l’idea di costituire in quelle aree colonie di ripopolamento e questo avvenne in concomitanza di lotte sociali e di un forte aumento demografico in Ellade. La prima colonia nell’attuale Calabria fu a opera dei calcidesi dell’Isola di Eubea, affini agli attici, che fondarono Reggio verso la metà dell’VIII sec. a.C. e la risposta degli achei, che abitavano attorno al golfo di Corinto non si fece attendere. Infatti nell’ultimo scorcio dello stesso secolo furono fondate le colonie achee di Crotone, Sibari e Locri Epizefiri, che occuparono spazi scarsamente abitati da popolazione di stirpe protogreca quali potevano essere gli enotri, dagli ausoni di stirpe italica o dai siculi d’origine incerta. Le popolazioni indigene furono massacrate o ridotte a uno stato semiservile e poi assimilate. All’inizio fu colonizzato il territorio sullo Jonio, e Crotone si spinse a sud occupando Scillezio, colonia ateniese, attestandosi sul confine con lo Stato locrese, fondando Kaulon. Successivamente le tre città si orientarono verso il Tirreno, dove i locresi fondarono Medma e Ipponion. In espansione furono pure i sibariti che fondarono Laos, Scidro e in Campania Poseidonia (Paestum). Fu un periodo di sviluppo inaudito, e l’arte, la poesia, la scienza, il diritto fecero nascere la convinzione che le colonie greche della Calabria attuale e della costa ionica lucana avessero superato la madrepatria in splendore. La ricchezza dei sibariti derivava dalla coltivazione principalmente della vite, che si adattava bene in territorio fertile e favorito dal clima, per cui in abbondanza il loro vino raggiungeva persino la Persia, grazie a Mileto, città vitalissima della Jonia (costa dell’Egeo dell’attuale Turchia). Possiamo disegnare un paesaggio agrario, desumendolo dalle raffigurazioni vascolari, dai pìnaches (quadretti in ceramiche dalle figure sbalzate) locresi e dalle tavole di Eraclea, dai contenitori di derrate alimentari e dalle anfore vinarie trovate negli scavi archeologici e lungo le rotte marittime del Mediterraneo. La cosa più sorprendente è che i frammenti delle MGS (Magna Grecia e Sicilia), anfore vinarie magno greche, si ritrovano sulle coste di tutto il Mediterraneo, dall’oriente all’occidente. Di conseguenza la vite dominava nel paesaggio agrario e il vino, in prevalenza da dessert, produceva il reddito maggiore. All’ulivo poi veniva riservata la massima attenzione e l’olio che se ne ricavava, oltre che per la cucina, veniva usato per profumi e unguenti. Nelle tavole di Eraclea sono riportate le indagini nelle terre sacre a Dionisio e ad Atena Poliate su un territorio diviso in lotti di 6-7 ettari ciascuno senza insediamento abitativo, dove lavoravano agricoltori che vivevano in komai (villaggi) vicini. In esse sono citati depositi di prodotti, fienili, caseifici, granai, stalle per buoi, viti, ulivi, boschi, cereali, fichi, prugni, peri, meli, mandorli, castagni, melograni, meli cotogni. Per gli ulivi vigevano disposizioni severe e gli affittuari delle terre dovevano ripiantare le piante quando seccavano, mentre nelle terre adatte erano messe a dimora 4 piante in mille metri quadri. In ogni kleros (lotto) la vigna occupava da 0,45 a 1,6 ettari. Negli orti molto curati non mancavano le fave, i piselli, le zucche, i porri, le rape. I boschi, ricchi di essenze per la cantieristica navale, davano pece, legname di abete, pino, faggio, quercia, ontano, frassino. La pece per la conservazione del vino era considerata la migliore di tutto il Mediterraneo. Molto curato era l’allevamento di pecore di razze selezionate e le lane delle bestie venivano pettinate svariate volte all’anno.